Ma…cosa fa un bambino dallo psicologo?
Quando si pensa ad uno studio di psicoterapia, l’immagine che compare più spesso nella mente è quella di due persone, paziente e terapeuta, che dialogano e che, quindi, attraverso le parole cercano di dare voce a emozioni e sofferenza. Certamente questa è un’idea che riguarda gli adolescenti e gli adulti, ma se è un bambino che ha bisogno di un aiuto psicologico, allora la situazione cambia. L’immagine di una persona che trascorre un certo tempo (il tempo della seduta) a dialogare si scontra inevitabilmente con le espressioni più evidenti e naturali del bambino, soprattutto se molto piccolo: gioco, movimento, strumenti da usare, toccare, annusare.
E allora, com’è possibile conciliare la specificità del bambino con quelle che, nell’immaginario comune, sono le caratteristiche tipiche di un setting terapeutico?
La foto allegata al post, vi mostra un piccolo squarcio del mio studio, preparato per accogliere un piccolo paziente. Come vedete, ci sono vari oggetti tra cui: peluche, bambole, pennarelli, libri di fiabe, fogli colorati etc., cioè tutto è pronto per iniziare a giocare! Perché è proprio questo che il bambino tende a fare in modo naturale: il gioco è la sua espressione unica, specifica e personale, è il suo vocabolario, il linguaggio che utilizza per comunicare, conoscere gli altri e stare in relazione. Col tempo, crescendo e diventando adulti, la dimensione del gioco cambia, è maggiormente governata dalla razionalità, si riduce a brevi momenti condivisi in spazi intimi e privati; in definitiva il gioco si “trasforma” in uno strumento di cui l’uomo fa uso solo in alcune circostanze. Infatti, non è un caso vedere qualche volta un genitore, probabilmente stanco e affaticato, che si rivolge al figlio, dicendogli “Ma non sei stanco di giocare?”
In questa frase risiede proprio la differenza tra il bambino e l’adulto poiché quest’ultimo ha, ormai, dimenticato che il gioco non è solo un’attività fra tante ma è “lo stare al mondo” del bambino, è la manifestazione della sua soggettività, è ciò che gli consente di entrare in contatto con sé e con gli altri. Ed è sulla base di questa idea che il gioco diventa quel linguaggio condiviso fra il bambino e il terapeuta, che può favorire la dimensione relazionale e comunicativa, fare luce su fragilità e sofferenze nascoste, trovare un canale comunicativo con cui dare voce a emozioni inespresse, al di là delle parole.
È ovvio che, per un terapeuta, accogliere un bambino significa accogliere anche i suoi genitori con i quali condivide uno spazio, quello della famiglia, intimo, privato, carico di emozioni e di dinamiche complesse e significative. E ancora una volta, il gioco rappresenta uno strumento ricco, prezioso, insostituibile col quale genitori e bambino possono costruire nuove e diverse forme di dialogo e incontro.
Grazie per la Lettura
Laura Polito